Il sanseverese Leo D’Orsi è un eclettico inventore d’arte, che conosce il valore della mescolanza degli stili. Inventore in senso concettuale, perché definirlo banalmente un “artista grafico” lo ingabbierebbe in un recinto grigio che non gli appartiene. La sua indagine si estende su tutto il territorio figurativo: la pittura, la grafica, il disegno (è vignettista estroso, autore di vivaci lampi umoristici), la scultura.
D’Orsi ha inventato uno stile, che tiene conto della lezione “citazionista” del Novecento, senza farne un dogma, ma arricchendola di un senso della messa in scena pittorica, che la cosiddetta post-modernità ha spesso disprezzato. Lo testimonia la serie delle sue opere esposte all’Artcafe di San Severo (lì per un mese, dal 15 novembre al 15 dicembre): una sequenza di sette composizioni grafiche digitali:
cui si aggiungono disegni, una serigrafia e una tela dipinta con colori acrilici:
Ciò che impressiona lo spettatore è la coerenza del discorso nel suo insieme, per quanto le tecniche adottate siano eterogenee anche all’interno dei singoli lavori: le composizioni grafiche sono un felice impasto in cui la logica digitale è applicata al disegno e alla fotografia, in una sintesi stilistica che non piega l’intuizione poetica alle regole della tecnologia, ma costituisce il presupposto per la sua libera espressione. D’Orsi sottolinea come nella sua opera sia presente «una ricerca estetica legata all’introspezione più che alla descrizione». Cosa evidente sia nella serie “verticale”, in cui i frammenti della memoria visiva e letteraria si fondono per comporsi in un ordine superiore; sia nei lavori graficamente “tradizionali”: anche qui il caos delle sensazioni emerge dal sottoscala dell’inconscio per esplodere nella luce, cioè nel colore, che è lògos e racconto nello stesso tempo. Riferimenti
letterari, suggestioni architettoniche (l’artista cita con la stessa disinvoltura Hermann Hesse, schegge di ricordi e scorci della sua città), illuminazioni liriche che sembrano debordare dal confine spaziale della geometria – il piano della superficie, il limite fisico della cornice – per trovare un equilibrio nella sincronicità degli elementi formali, al di là dell’immagine pura, mai fine a sé stessa.
Mutatis mutandis, è come se Laszló Moholy – Nagy avesse riconosciuto il suo occhio geometrico nello specchio fantastico di Moebius. Proprio la presenza simultanea di componenti
apparentemente discordi, restituisce la sostanza di un pensiero drammaticamente vitale.
La distanza dello sguardo dell’artista dalla realtà, attraverso la compressione della materia, è solo una forma della rappresentazione, un artificio scenico che, volendo sembrare oggettivo, spiritualmente naturalistico, è in realtà intriso di pathos e di partecipazione emotiva. La realtà della vita frammentata è ricomposta nella revisione arbitraria della memoria, che ricuce i frantumi del caos esistenziale in una narrazione densa di colori. L’arte di D’Orsi non può attenersi alla dimensione oggettiva dell’esistenza: ha bisogno di deformarla, di rivoltarla «come un guanto di capretto» (Shakespeare), per intrappolare la sua immagine nascosta e imperscrutabile: la millenaria lotta dell’arte con il segreto che è nelle cose e che non riconosciamo, sebbene ci accompagni dalla culla alla tomba.
È un’arte introspettiva, e perciò tesa a stravolgere la concatenazione logica degli eventi, quella che chiamiamo la “diacronia” della storia.
La storia rappresentata da D’Orsi è profondamente umana, soggettiva. Sincronica come l’attività dello spirito, che concentra passato e futuro nel presente. Una raffigurazione delle emozioni sottotraccia raggelate nella forma. “Emozione”:
parola che, nell’abuso avvilente che ne ha fatto la comunicazione pubblicitaria, sembra avere perso ogni autenticità, ma che rimane il nucleo di pensiero dell’artista che si interroghi sul suo ruolo nella società.
È lo stesso D’Orsi a parlare di «realtà ricostruita»: l’immagine del mondo è ricreata nell’armonia del racconto pittorico, ma senza astrattismi compiaciuti, né riproduzioni da reportage fotografico: il dramma interiore dell’individuo è declinato nella sintesi di oggettivo e soggettivo, conscio e inconscio, fisico e metafisico. In una contaminazione che trova la misura perfetta nella conciliazione di delirio e ragione. Caos e stile: il magma primordiale dei sentimenti e la proporzione della forma: un ossimoro sanabile, un equilibrio raggiungibile solo se si è capaci di scandagliare il buio della coscienza.
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